“Sono al terminal, Maria. Arrivo verso le dieci e mezza.”
“D’accordo. Verrò con Cristina a prenderti. Sai, è da un sacco di tempo che mi chiede quando torna lo zio.”
“Ci vediamo all’autostazione allora. Ci metterà una decina di ore. Speriamo non trovi traffico sull’autostrada.”
E detto questo aveva riattaccato. Sugli autobus non c’è granché da fare, di solito. Non poteva leggere perché gli faceva venire il mal d’auto. Non c’erano prese per i telefoni né tantomeno per i lettori mp3. Tutto ciò che poteva fare era mettersi a guardare il paesaggio.
Il paesaggio, però, faceva schifo. Non c’erano altro che palazzi tutti diversi ma tutti osceni. Il cemento aveva preso il possesso della zona, non era più come quando lui era arrivato, una decina di anni prima. Ora quegli alveari avevano invaso persino una zona indesiderabile come quella vicino alla tangenziale. L’autobus girò su sé stesso una decina di volte, tra curve e controcurve che lo portavano fuori dalla metropoli e finalmente prese la striscia di asfalto dritta che attraversando lo Stivale l’avrebbe portato ancora al paese.
Ci era voluto del tempo: quando un pullman parte, non si sa mai quando possa arrivare. Passarono gli autogrill, una sosta ogni due ore perché i vecchi se la fanno addosso, gli era capitato di pensare. Lui non era vecchio ma aveva avuto bisogno lo stesso per più di una volta. Viaggiare in autobus non gli piaceva ma era l’unica possibile, o quantomeno la più economica.
Scendendo lungo la penisola, aveva notato il cambiamento. La pianura si era corrugata diventando prima collina e poi montagna, e tra le gole l’autostrada si era fatta stretta stretta pur di passarci. Le quattro corsie più una erano diventate due piccole più una non necessariamente di emergenza. C’era da stare attenti alle immissioni, sempre di più man mano che l’infernale mezzo raggiungeva la capitale ed oltre, fino a scendere in mezzo alla pianura pontina, noiosa e piatta da non avere quasi fine. Aveva continuato a guardare per un po’, quindi si era addormentato in mezzo ai primi saliscendi campani.
L’autobus frenò di colpo, svegliandolo. Guardò fuori: la sua città, era arrivato a casa.
Sceso dal pullman in fretta e furia, aveva preso la valigia e tra la folla in attesa non aveva visto sua sorella Maria. In mezzo ai palazzi che circondavano quella strana autostazione nel bel mezzo della città non c’era un solo posto macchina libero. Aveva guardato e riguardato, ma la macchina di Maria non c’era.
Aveva preso il telefonino e l’aveva chiamata. “Il numero della persona chiamata è inesistente”, disse la voce automatica. Cosa poteva essere successo a sua sorella? Aveva provato anche col numero di casa di sua madre, ma anche in questo caso il gestore diede un messaggio di errore.
Si era chiesto che cosa potesse essere mai successo alla scheda del telefonino. L’aveva tolta, l’aveva rimessa dentro ma niente, non funzionava, il numero era sempre inesistente. Probabilmente, aveva pensato, si era danneggiata durante il viaggio e gli sarebbe toccato comprarne un’altra. Poco male, avranno avuto un contrattempo, si era detto dirigendosi verso la corsia dei taxi. “Dove la porto?” aveva chiesto il conducente. “Contrada Fornarina 1” era stata la risposta. Il tassista fatto una faccia strana. “Scusi tanto la domanda, se posso farmi gli affari suoi, ma perché va lì?” “Ci abita mia madre” aveva risposto lui.
Il tassista aveva detto “Ah”, aveva fatto un’altra faccia strana e poi si era messo a guidare per quella che probabilmente era l’ultima corsa della giornata.
Dopo quindici minuti di taxi aveva ordinato all’autista di fermarsi poco oltre il bivio che portava alla strada di campagna che conduceva a casa sua.
“Scendo qui, le macchine di qua in poi non passano facilmente” aveva detto. Si era preso la valigia e se n’era andato verso casa, distante poche centinaia di metri da dove si era fatto lasciare.
“Ehi” aveva detto il tassista “non vuole che la aspetti?”
Perché mai avrebbe dovuto aspettarlo? “No”, aveva risposto “la ringrazio” aveva urlato.
Da lì in poi aveva visto il taxi andare via con la sua luce bianca nel buio della campagna dopo aver fatto frettolosamente manovra in una strettoia. Per fortuna c’era un fanale acceso che faceva da riferimento. Ci aveva giocato migliaia di volte, da piccolo. La casa era là, tutta illuminata. La punto beige della sorella non c’era.
“Sono tornato!” aveva urlato da lontano, certo di essere sentito, la finestra era aperta. Nessuno aveva risposto.
“Ehi!” aveva gridato ancora, abbassando la maniglia. La porta era chiusa. Aveva bussato e suonato il campanello, come faceva di solito quando tornava.
“Mà! Sono Alfonso!”
Si preoccupò. Anche se Maria era uscita, o il padre o la madre sarebbero dovuti essere a casa. Era entrato dalla finestra, piegandosi in due come faceva da ragazzo, pensando al peggio.
In cucina non aveva trovato niente, così come nel bagno, nelle camere, in corridoio, e nemmeno nella cantina, nella rimessa, in giro per la campagna circostante. Aveva provato anche ad usare il telefono di casa per chiamare, ma il numero di Maria risultava sempre inesistente. Guardando il pavimento, quel rosa venato di scuro del salotto gli aveva provocato un brivido. Sentì che doveva uscire e così si era messo a cercare le chiavi, ma non ce n’erano, non c’era altro da fare che uscire dalla finestra ancora una volta. Sentì scricchiolare, forse era lo scaldabagno. Si affrettò, senza voltarsi indietro.
Aveva percorso all’indietro la strada di campagna, arrivando vicino al bivio, in una zona dove ci poteva essere campo per il telefono. Aveva provato a chiamare ancora Maria, ma non c’era modo di far capire alla rete nazionale che il telefono di sua sorella esisteva fino a dieci ore prima, quindi aveva chiamato il taxi per farsi riportare in città, capendo che in realtà la sua scheda funzionava.
In un attimo di dubbio, infine, si era girato verso l’abitazione per vedere di non aver lasciato aperto nulla.
La casa era sparita.