L’isola in mezzo alla città

Oggi è il venticinque di aprile, e mio padre ha un vecchio amico di sinistra che si è dovuto trasferire suo malgrado in una stanza di una casa di riposo dopo l’ennesima rovinosa caduta.

Nemmeno mi ricordo se sono mai stato lì dentro, prima d’oggi. Mi sa di no. O chissà, forse una volta, con la banda del paese. Ma ero troppo giovane per ricordarmela bene, o non davo grande peso alle cose. 

Il passaggio dalla città alla stanza è stato graduale. All’ingresso ci sono impiegati sovrappeso che danno informazioni un po’ confuse. Per arrivarci si prende un sentiero sterrato: l’amico è nella parte vecchia, quella un po’ meno bella, probabilmente. In quella nuova non sono mai stato. 

Appena entrati si sente un odore grasso, come di minestra. Non so perché, ma mi pare che esattamente come per la banda, gli ambienti frequentati dalla gente avanti con gli anni si somiglino tutti. Sopra il perlinato che corre per le ali dell’edificio ci sono appese ad altezza d’occhio cose vecchie. Quadri di Bartali, ritratti di Modugno che canta, vecchie insegne di bar o addirittura di esercizi storici cittadini chiusi da tanto tempo. Il pavimento lungo metri e metri di corridoio è di marmo rosa chiaro, con riquadri più scuri. Ci sono delle porte tagliafuoco di un rosso intenso, fanno da porte delle camere. 

Le infermiere sono ai tavoli con degli anziani che mi danno l’idea di essere quelli più bisognosi d’assistenza, seduti a dei tavoli scuri su grosse sedie. Qualcuno dice cose senza senso.
Passiamo da fuori. C’è un bel giardino con un gazebo che divide un edificio dall’altro, e le assistenti aprono le porte a noi che visitiamo, sono molto gentili e pazienti.

L’amico non è grave, per ciò che vedo. È solo molto alto e scavato, e si tiene a un girello. Mi aggrappo al ricordo di com’era ed alla sua coscienza per dare un senso a quel luogo. C’è una radio, la moglie la accende, lui ride. Arriva un’altra persona che mi dice qualcosa a proposito del fatto che ci fosse lì il fratello del mio cane. Io non ho animali, ma sorrido e ringrazio. 

Comincio a pensare che tutti stiano bene lì dove sono, che siano esattamente dove devono essere. Non posso fare a meno di credere che se da vecchio dovessi essere ospite di una struttura, al secondo giorno preparerei i piani di evasione. Poi mi dico che anche se è il venticinque aprile, la resistenza c’entra poco, se si ha bisogno di aiuto. 

Dopo un po’ salutiamo e andiamo via. Per tornare facciamo un’altra strada, passando ancora per il gazebo, ma infilandoci dentro un tunnel di vetro verde che divide una parte del complesso dall’altra. Finiamo in uno di quei locali di servizio tutti piastrellati, con fogli vecchi e attaccati male sui muri e odorano di cibo da mensa. Non c’è nessuno. Usciamo per quella che credo essere una porta di servizio. Una volta passato il cancello, provo un grande sospiro di sollievo nell’essere rientrato nelle vie di una città che comunque non amo davvero, al di là della familiarità dell’averci sempre abitato. Eppure, mai come in quel momento sono felice di essere lì. Guardo dalla strada le finestre dove sta l’amico. Mi sembra tutto molto piccolo, come se quella struttura fosse un’isola in mezzo alla città, e non posso fare a meno di ringraziare per il dono della libertà.
In questo senso, ovviamente, ma anche in molti altri. Buon venticinque aprile. 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Torna in alto