Mi trovavo sulla pista ciclabile che da Morimondo risale l’alzaia del Naviglio di Bereguardo. Ero in groppa alla mia Exaide blu, residuato ciclistico universitario che ho ereditato da Rita, una ragazza cretese tornata sull’isola dopo la laurea.
Concedetemi una parentesi: da allora, pur possedendo una bici di marca migliore, io e lei siamo inseparabili. Exaide, un nome a metà tra il greco antico e lo sci-fi, è infatti una bici confortevole, leggera, con la sella semidistrutta già da tempo e dalla regolazione fin troppo bassa. Nonostante ciò, con lei ho fatto anche delle belle figure.
Ricordo come fosse ieri una ex compagna di corso, tale Camilla, che preoccupata mi sollecitava a comprare una catena nuova e un buon lucchetto. “È una bici abbastanza bella”, mi aveva detto “stai all’occhio”: esaminandola oggi, mi chiedo quale fosse il panorama ciclistico pavese intorno al 2006. Ma non andiamo troppo in là.
Sul mio cavallo d’acciaio blu blandamente elettrico sono andato in giro per tutta Pavia, tangenziali escluse. Nei miei personali Grand Tour pomeridiani in cerca di posti da esplorare, ho trovato con lei villette a schiera in stile inglese dietro via Olevano e persino il teatro alla Scala, inteso come un grosso padiglione a Rione Scala, quartiere residenziale di Pavia nord. Tanto nord che andando in su, con un salto di venticinque chilometri, chiudo la parentesi ciclistica e ritorno dove vi ho lasciati: sulla strada di collegamento da Morimondo alla pista ciclabile dell’alzaia.
Odore di letame. In fondo, un trattore.
Per quanto io ci pensi, non mi viene in mente un simbolo migliore dei trattori per l’operosità: sono la potenza meccanica che ara il terreno per mettere in tavola del buon cibo. Buffi e simpatici perché squilibrati nella forma, rumorosi quanto basta per essere irresistibili ai bimbi nella cosiddetta fase-ruspa.
Pensavo allora ai giganti buoni dei campi, che nella periferia d’Europa accalappiano i loro lontani parenti dotati di cingoli e cannone per impedire loro di far male alla Terra. Sollevava polvere, quel trattore che ho visto in lontananza, la polvere che ho tentato di fotografare sotto un cielo blu e un campo giallo, come il vessillo di quei luoghi in cui la polvere è quella dei palazzi sbriciolati e la terra produce solo mine anticarro.
Mi ha fatto bene, vederlo, un moto di simpatia m’ha preso il cuore. Sono i trattori, i veri eroi della resistenza, e come tali forse saranno ancora loro a salvarci dalla fame e dalla povertà, con quella loro strampalata andatura. Goffa, sì, ma decisa a disegnare sulle pianure righe dritte come un pentagramma da riempire con delle note fatte di semi di speranza.