La mia Scala

Ho fatto un viaggio. Anzi, due. Il primo nello spazio, il secondo nel tempo.

Proprio di quest’ultimo vi voglio parlare: il primo lo tratterò con tematiche adeguate e riferimenti cronologici eleganti in un bell’articolo. Permettetemi, qui, di concedermi il lusso dell’irrazionalità, del racconto dei sentimenti.

Correva l’anno 2005. O 2004, chissà. Questi viaggi nel tempo non sono facili, si sa quando finiscono e non si sa quando cominciano. Per la prima volta nella vita facevo quel lungo, lunghissimo rettilineo di via Olevano, di cui già vi ho scritto nell’articolo precedente. Saltando oltre la tangenziale, nella prima periferia pavese, arrivavo nel bel verde di Rione Scala.

Sono passati decenni. Del “mio” Rione non rimane sostanzialmente nulla che non faccia parte delle strutture religiose, pubbliche o sanitarie. Solo un bar tabacchi e una parrucchiera. Essendo capitato in orario di pausa pranzo, non posso nemmeno essere certo siano ancora aperti.

Oltre alle scuole, la Scala ha un teatro. Si chiamerebbe teatro “Cesare Volta”, ma per tutti, parodisticamente, è il teatro “alla Scala”. Ho percorso la via tonda che porta alla vecchia fermata, trovandovi solamente desolazione.
Quando l’ho conosciuto io, il cuore del rione era un po’ diverso. C’era un piccolo supermercato, la fermata dell’autobus per andare nei due sensi – centro e San Genesio, oggi viene usata solo per la seconda – e soprattutto il bar sotto la grande tettoia di Piazzale Salvo D’Acquisto: il “Nuovo Bar della Scala”.

Vorrei aprire una parentesi su questo luogo, ai tempi sponsorizzato da una birra semisconosciuta, la Herrnbräu, mai più ritrovata in alcuno scaffale di supermercato o insegna di locale negli anni a venire. Il “Nuovo Bar” praticava prezzi popolari, da periferia, appunto. Era inoltre depositario di una gemma nascosta: il biliardo senza stecche, che avrei rivisto solo in Toscana un decennio dopo. Durante le mie passate frequentazioni scaligere ho avuto la vivida impressione di aver visto giocare lì dentro dei professionisti, o comunque dei personaggi che si abbigliavano come tali. Ricordo di averlo trovato affascinante.

Oggi il “Nuovo Bar” ha chiuso. Troppo poca l’utenza: da anni, ormai, quel piccolo avamposto si è arreso alla crisi.
Chi non si è arresa, invece, è la comunità parrocchiale di Santa Maria della Scala, un esempio di architettura brutale, più che brutalista, datata 1972.
Pur avendo abitato accanto alla Coop di viale Campari, ho costretto la mia ex compagna a frequentare quella lontana Messa domenicale per lungo tempo. Innumerevoli erano i personaggi che animavano la celebrazione: un uomo, da noi soprannominato “Guccio”, in grado di riempire la chiesa col solo uso di una una voce tonante e di una chitarra classica non amplificata. Un altro, detto “Ultrabass” al quale ho seriamente rischiato di scoppiare a ridere in faccia più volte: la sua voce percorreva lo spartito almeno due ottave sotto gli altri. E poi la star, quello che a me manca più di tutti, “Dongiu”.

No, non Don Giussani, bensì Don Giuseppe, ex cappellano del carcere di Pavia. Le sue pirotecniche prediche in odore di chiesa “operaia”, precorrendo Papa Francesco di almeno dieci anni; il suo presiedere la Messa ad occhi chiusi, persino il fermarsi a riprendere due ragazzini chiacchieroni durante la celebrazione, secco e paterno.
“Zitti voi due!”.
Mai più capitato. Don Giuseppe, ho appreso poi, ha lasciato Santa Maria dal 2012. Una vita.

Alla Scala non avevo mai trovato la chiesa aperta. Ci sono andato verso le due e mezza di pomeriggio, un orario inusuale persino per un bar, figurarsi per una parrocchia. Il cancello era aperto, e così, sorpreso, sono entrato. Davanti ad una piccola rimessa interna alla canonica era posteggiato un carrello, ma nonostante ciò non ho notato anima viva. Dubbioso, ho tirato verso di me il portone della chiesa, e per la prima volta dopo lustri me la sono ritrovata davanti.

È stato commovente, non ve lo nego. Ho ritrovato il me stesso di tanto tempo fa, come sempre mi succede nei posti in cui ritorno. Senza nostalgie: il passato è bello ma il futuro è meglio. Con un grande tuffo al cuore, però, che per poco non è riuscito a cavarmi una lacrimuccia.
Continuava nella sua timida disorganizzazione da periferia del nord, Santa Maria. Poggiata su un tavolino in fondo, una scatola piena di carte alla rinfusa, nella quale cercando senza successo un’immaginetta della chiesa ho trovato una medaglietta, non bella per la verità, ma che ho voluto portare con me.
L’altra che ho, per la cronaca, è del Sacre Coeur di Montmartre, Parigi.

Alle volte mi sento un po’ Don Camillo: mi verrebbe da parlargli, al crocifisso, e dirgli tutte quelle cose che non ho il coraggio di dire a nessuno. Poi, però, penso le sappia già, e allora gli risparmio la cantilena.
Mi sono seduto “al mio posto”. Dopo qualche minuto mi sono alzato, senza disturbare, e sono uscito portando con me un bel ricordo. Fuori non c’era nessuno.

Mentre andavo a prendere il pullman, però, si è avvicinata una signora dell’est a chiedermi qualcosa in un fiorire di soggetti sottintesi che sinceramente non sono riuscito ad afferrare.
Dopo due minuti buoni di dialogo ed equivoci, ho finalmente compreso: lamentandosi del distributore automatico fuori uso, mi domandava dove si potessero comprare delle sigarette.

Una specie di commedia degli equivoci, in buona sostanza. Ho fatto del teatro alla Scala: se ci pensate bene, in fondo, non poteva finire che così.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Torna in alto